Quarta medaglia in tre anni per le azzurre di coach Sara Braida: «Quando vedi le ragazze fiere di ciò che sono capisci che i nostri trionfi vanno oltre lo sport».

Sotto canestro c’è un mondo silenzioso che sta facendo rumore. Non è un paradosso, ma la felice realtà della Nazionale di basket femminile sorde, una squadra che impresa dopo impresa si sta confermando ad alti livelli nel panorama internazionale. La medaglia d’argento continentale è solo l’ultimo alloro di un cammino formidabile: campionesse d’Europa nel 2021, argento alle Deaflympics (le olimpiadi dei sordi) e bronzo al Mondiale 3×3 due anni fa. Quattro medaglie negli ultimi tre anni. Senza dimenticare il bronzo agli Europei del 2016, il bronzo olimpico nel 2017 e quello ai Mondiali Under 21 nel 2018. E pensare che quindici anni fa non esisteva neppure una compagine femminile. Oggi invece non c’è competizione dove le azzurre passino inosservate.

Tutto cominciò nel 2010 in una palestra di Pesaro quando alcune amiche udenti e sorde hanno iniziato a giocare insieme per divertirsi. Allenate da un cestista azzurro, Peter Pozzoli, con la passione di due giornaliste, Beatrice Terenzi (oggi direttore tecnico dalla Federazione sport sordi Italia) ed Elisabetta Ferri, il sogno ha cominciato a prender forma. L’incontro provvidenziale poi con Sara Braida ha fatto il resto: da più di dieci anni è lei la guida tecnica della Nazionale femminile. Classe 1982, originaria di Cividale del Friuli, giocatrice professionista prima dell’incontro fatale con questa realtà: «È avvenuto quasi per caso – racconta – Per me era un mondo nuovo dove vedevo persone di nazionalità diverse comunicare con la lingua dei segni e ne rimasi affascinata. Il primo passo è stato quello di superare la diffidenza iniziale poi tutto è stato in discesa».

Lo scoglio principale è quello comunicativo: «Rispetto ad altri Paesi – spiega coach Braida – non c’è in Italia un campionato di basket per sordi quindi tutti gli atleti e le atlete giocano nei campionati udenti: qui è consentito utilizzare protesi e impianti cocleari, mentre nei tornei a loro riservati gli atleti sordi non possono utilizzare ausili, per cercare di garantire una certa equità». Inevitabili dunque una serie di difficoltà: «Chiaramente essendo il basket uno sport di squadra – continua l’allenatrice – il problema più grande può essere sulle collaborazioni difensive o sulle indicazioni che diamo dalla panchina, ma ormai con piccoli stratagemmi e con accorgimenti tattici anche queste complicazioni vengono superate. Noi staff comunichiamo con le giocatrici in campo sfruttando tutti i tempi morti, chiedendo loro un contatto visivo ad ogni fischio dell’arbitro».

Anni di lavoro e sacrifici, ma con soddisfazioni impagabili. «Il ricordo più emozionante da coach della Nazionale è senz’altro il primo canestro: un silenzio totale nel palazzetto e le ragazze che mimavano l’applauso. Una scena che mi è rimasta nel cuore. Ma è un’emozione continua poter condividere il tempo con loro e con il mio staff. Ora speriamo sia indimenticabile anche Tokyo dove nel 2025 si svolgeranno le Deaflympics». Un appuntamento a cui arriviamo dopo tanti successi: «Ma senza il lavoro di gruppo non avremmo ottenuto niente – tiene a sottolineare Sara Braida – Siamo una squadra anche fuori dal campo: Beatrice Terenzi direttore tecnico che ha fondato la nazionale e che da anni ricerca fondi per sostenere le necessità delle ragazze; Elisabetta Ferri che con la sua penna racconta e da visibilità alla nostra realtà; la federazione sport sordi che lavora per permetterci di esprimerci nel migliore dei modi e Giovanna Franzese, coach con cui condivido scelte tecniche e le nottate a studiare le avversarie, che con la sua personalità ha alzato il nostro livello».

E in campo il collettivo azzurro continua a far la differenza portando alla ribalta storie che non possono rimanere nel silenzio. Come quella di Simona Sorrentino che qualche anno fa si raccontò al sito di cestisti appassionati La Giornata Tipo: «Io sono nata e cresciuta in una famiglia udente e ho trascorso la maggior parte della mia infanzia a fare logopedia, a cercare di migliorarmi per mascherare questa mia disabilità che mi faceva soffrire. Che mi faceva sentire una bimba diversa… Quand’ero piccola e giocavo nel minibasket alcuni compagni mi chiedevano: “Ma cos’hai dentro le orecchie??!”… Io mi paralizzavo e scappavo. Crescendo sono arrivate protesi migliori e ho capito che non dovevo più vergognarmi».

Al punto che scrisse una lettera toccante alla pallacanestro: «Caro basket. Grazie a te, la cosa che più mi faceva vergognare da piccola, la mia più grande debolezza, è diventata la mia forza». È il successo più grande, il trionfo di chi vince sempre e comunque, prima ancora di scendere in campo: «Quando una disabilità diventa una diversa abilità ed è motivo d’orgoglio allora vincono tutti – spiega coach Braida – Vedere ragazze che sono fiere di ciò che sono, che non si legano più i capelli per coprire le protesi, allora lì ti rendi conto che c è qualcosa di più, che va oltre lo sport».

Fonte: https://www.avvenire.it/agora/pagine/l-italia-del-basket-che-vince-sempre

Avvenire – Articolo di Antonio Giuliano