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Presentazione di Ersilia Bosco del libro “Il figlio del silenzio” di Monica Tarola
Presentazione di Ersilia Bosco a Il figlio del silenzio di Monica Tarola.
“Quando ammiriamo lo splendore di una perla
non pensiamo mai che essa nasce dalla malattia di una conchiglia”.
(Karl Jaspers[1])
Monica può apparire una donna timorosa e diffidente e – minuta com’è – fragile e poco capace di affrontare le avversità. Al contrario fin dal nostro primo incontro ha mostrato il suo desiderio di comprendere cosa stava succedendo al proprio bambino e la determinazione ad aiutarlo a crescere bene ed essere felice “nonostante tutto”. Il libro che ha scritto ripercorre un lungo e difficile percorso di vita e offre la dimostrazione delle notevoli capacità di resilienza tipica di molte donne abruzzesi. Nel leggerlo ho ritrovato lo sguardo attento e penetrante di Monica, la serietà del bel volto, il dolore contenuto ma chiaramente percepibile. L’autrice mostra la propria forza d’animo anche nel modo di narrare – senza sconti né dolcificanti – la storia di una madre determinata ad aiutare il figlio a superare i limiti derivanti dalla sordità profonda che lo ha colpito nei primi anni di vita. Narra per condividere con gli altri e stemperare i laceranti vissuti di solitudine e separazione nella crescente consapevolezza che le difficoltà che la coinvolgono oltrepassano i confini del perimetro familiare e costituiscono una problematica sociale: «Mi sento una mamma speciale mentre vorrei essere una mamma normale come tutte le altre … mi sento osservata, scrutata giudicata, umiliata, offesa ma soprattutto criticata sempre e comunque […] Mi sento non accettata diversa emarginata marcata come un animale […] mi sentivo criticata anche dall’insegnante che non aveva mai incontrato prima un ragazzo sordo, come se attribuisse tutte le sue sconfitte con Matteo a me».
Difatti ci si dimentica troppo facilmente che i genitori di un bambino con disabilità sensoriale[2] sono semplicemente dei genitori, simili a tutti gli altri, destinati pertanto a sbagliare in questo loro difficile compito. Educare un bambino sordo è un compito più difficile e noi dovremmo essere più comprensivi nei confronti delle inevitabili manchevolezze ed errori. E allora perché siamo così giudicanti e pronti all’accusa? Forse anche noi li riteniamo in qualche modo responsabili di aver messo al mondo un bambino non perfetto e quindi pretendiamo che siano loro a mettere riparo a un danno che essi stessi hanno generato? E la carenza di solidarietà e di ascolto emerge più e più volte nelle pagine del libro insieme al rifiuto della commiserazione e al diritto di poter esprimere anche la propria rabbia e preoccupazione.
La narrazione di Monica procede come un flusso continuo attraverso un susseguirsi di eventi spesso dolorosi che si snodano quasi senza soluzione di continuità. Sembra scritto tutto d’un fiato come quando si prende una medicina amara da buttare giù tutta in una volta. Inoltre la faticosità della scrittura ci trasmette la fatica del vivere, il desiderio di condividere la propria esperienza e nello stesso tempo la difficoltà a tenere la giusta distanza da un materiale che è ancora incandescente per la narratrice e che a volte per non scottarsi utilizza le molle del linguaggio medico. Le pesanti parole dei referti delle diagnosi riportate con puntigliosa precisione, la descrizione dettagliata dei comportamenti contradittori degli specialisti disegnano le mura grigie e altissime di un labirinto. Il filo rosso che consente di uscirne è rappresentato dall’incrollabile fiducia nelle possibilità di Matteo e dalla calda e robusta relazione con il marito Marco. Certo, sono descritti anche momenti di gioia e soddisfazione come i giorni che seguono il fitting dell’impianto cocleare e «sono una scoperta sia per noi sia per lui….dopo pochi giorni succede una cosa che mi riempie di gioia: Matteo è un po’ distante da me io lo chiamo e lui si gira…un’emozione immensa come se fosse rinato un’altra volta», la nascita della seconda figlia Desiree, i progressi di Matteo, i suoi successi scolastici, l’accettazione di frequentare altri ragazzi sordi. Ma si stagliano in un panorama sabbioso di solitudine e incomprensione nel quale il contesto sociale e ambientale non solo non sostiene la famiglia ma sembra ancora una volta incolparla e metterla all’angolo. Mi preme sottolineare che non si tratta di un eccesso di pessimismo o di sfortuna. Gran parte dei problemi cui l’autrice fa riferimento sono quelli che solitamente le famiglie si trovano ad affrontare durante il processo di crescita del proprio bambino sordo e cioè la carenza di sostegno nei momenti critici, la non sempre facile relazione con logopedisti e insegnanti, la mancanza di una formazione dei care givers per adeguare comunicazione e didattica ai bisogni degli studenti sordi, le criticità dell’adolescenza[3].
Monica ribadisce più volte l’importanza della relazione con il marito Marco cui si riferisce come il pilastro e punto di riferimento e si percepisce che la loro relazione è cresciuta e arricchita nel tempo con la condivisione di scelte importanti tra cui quella di avere un secondo figlio. Ci parla anche della positività del personale percorso psicoterapeutico- intrapreso una volta resasi conto di avere bisogno di un aiuto per continuare a sostenere il progredire del figlio – e di come abbia scoperto sconosciute, importanti parti di sé: «ho scoperto di avere una mente elastica e di essere capace di imparare nuove cose […] ho imparato a guardare il mondo con occhi diversi ad apprezzare il sapore e la gioia delle piccole cose».
Monica in conclusione afferma, con la consueta sincerità, non tanto di accettare la sordità perché «accettare è una parola grande, ma ho imparato a conviverci cambiando molte abitudini e adattandomi alla nuova situazione». Possiamo affermare che Monica confrontandosi con la disabilità sensoriale del figlio ha imparato a comprenderla e anche a confrontarsi con i propri limiti intesi come margine che ci definisce e identifica con le personali caratteristiche e possibilità. Non so se sia accettazione[4] e non credo sia importante stabilirlo. Al contrario ci piace farne risaltare la capacità trasformativa, il desiderio di conoscere, l’accoglienza dell’altro, la capacità a esprimere i propri bisogni, l’immaginare e operare per migliorare se stessa e l’altro.
[1] Karl Jaspers, Genio e follia. Strindbergh, Van Gogh, Swedenborg, Hölderlin, Rusconi, Milano 1990.
[2] Ho parafrasato le parole che il professor Mazzeo Mario (1945-2001) ha utilizzato parlando dei genitori del bambino cieco: www.immaginiperviveremariomazzeo.it Per i genitori del bambino non vedente.
[3] Cfr di E. Bosco: Comprendere la sordità. Una guida per scuole e famiglie Ed Carocci, 2013.
[4] Accettazione: etimologia ← dal lat. acceptāre, deriv. di accĕptus, part. pass. di accipĕre ‘accogliere’. Consentire ad accogliere, a ricevere quanto viene offerto o proposto (cfr. Treccani, Garzanti.)