BES, Bisogni Educativi Speciali

In ogni classe ci sono alunni che hanno bisogno di una speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento, disabilità.

La scuola è (davvero) per ‘tutti’?
L’acronimo BES sta per “Bisogni Educativi Speciali”, espressione introdotta in Italia dalla Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica. Normativa che ne precisa in fondo il significato: “In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”.
L’utilizzo dell’acronimo BES sta quindi a indicare alunne e alunni per i quali il principio della personalizzazione dell’insegnamento, sancito dalla Legge 53/2003, va applicato con particolari declinazioni.
“Prima, per la scuola, ogni bambino è stato uguale a tutti gli altri, senza un certificato con il timbro. In questo senso, con questa normativa, il Ministero ha corretto il tiro e assegnato anche un compito ‘morale’ alla scuola. Tuttavia, non è un obbligo definire piani personalizzati per ogni alunno con qualche tipo di difficoltà ma è una prerogativa del consiglio di classe”, spiega Flavio Fogarolo, insegnante in pensione, a lungo referente per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità dell’Ufficio scolastico provinciale di Vicenza, e tra gli autori del volume Alunni con Bes (a cura di Dario Ianes, Sofia Cramerotti, Erickson).

Alunni con Bisogni Educativi Speciali: chi sono?
La Direttiva ministeriale, seguita dalla Circolare n.8 del 2013 e dalla Nota 2563 del 2013, riguarda tutto il ciclo di istruzione e pone l’accento sulle problematiche di alunni e alunne che non rientrano sotto l’etichetta di una malattia clinica certificabile.
In altre parole, il principio di fondo è prestare più attenzione anche a quei bambini che non sono certificati da una diagnosi medica come accade, per esempio, per i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) e le disabilità regolati dalla Legge 170/10 e dalla Legge 104/92.
Quindi la normativa mira a completare la via del diritto all’inclusione (e non solo ‘integrazione’) scolastica per tutti gli alunni. Per questo, fa riferimento a una serie di situazioni di difficoltà e disagio che ha riunito sotto la macro-categoria di Bisogni Educativi Speciali.
In sostanza, allarga lo spettro degli alunni che possono beneficiare di misure didattiche e pedagogiche speciali per superare difficoltà e svantaggi.

Un esempio? Il bambino che ha disturbi specifici di apprendimento, magari lievi, può superare gli ostacoli grazie a una metodologia didattica e pedagogica adatta alle sue esigenze individuali. A discrezione, gli insegnanti possono quindi stabilire una serie di misure, come le interrogazioni programmate, meno compiti a casa, l’uso del tablet in classe..

Sotto l’etichetta di alunni con Bes rientrano tre aree principali:
– disabilità
– disturbi evolutivi specifici che, a sua volta, includono: DSA – disturbi specifici del linguaggio; disturbi specifici nelle aree non verbali (coordinazione motoria, disprassia); disturbo dello spettro autistico lieve, deficit del linguaggio; deficit delle abilità non verbali; deficit della coordinazione motoria; deficit dell’attenzione e dell’iperattività.
– svantaggio socio-economico, linguistico, culturale.

Verso una scuola per tutti
Lo scopo del provvedimento è offrire una maggiore tutela a tutti gli alunni. “Lo spirito è anche quello di ricordare che ci sono bambini con esigenze particolari, come, d’altra parte, ci sono sempre stati” dice Fogarolo. Alla scuola, e in special modo al consiglio di classe, come spiega l’esperto scolastico, spetta la valutazione didattico-pedagogica di cosa fare per valorizzare al meglio tutti gli alunni, nell’ottica dell’inclusione.
Almeno nelle intenzioni, infatti, la scuola italiana persegue l’obiettivo dell’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Perché vuole essere una comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere dalle diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale.
Per il riconoscimento di BES ci si basa sul modello per la classificazione del funzionamento, della disabilità e della salute, l’International Classification of Functioning, Disability and Health, promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Il Piano Didattico Personalizzato (PDP)
La formulazione del Piano didattico personalizzato (PDP) non è un obbligo burocratico.
Secondo Fogarolo è importante capirlo, perché una maggiore flessibilità didattica rappresenta una marcia in più ma solo se e quando è veramente necessaria (come raccomanda la legge stessa).
“Il consiglio di classe riconosce un alunno con Bes, si siede intorno a un tavolo ed effettua una valutazione didattica e pedagogica, non clinica, su quel bambino. La possibilità di seguire un percorso diverso rispetto ai compagni deve essere un reale aiuto, altrimenti può creare situazioni negative” dice l’esperto. Insomma, la scuola deve formalizzare un PDP dopo aver esaminato bene ogni possibile pro e contro. Del resto la scuola può intervenire nella personalizzazione in tanti modi diversi, informali o strutturati, secondo i bisogni e la convenienza.
E la Nota 2563 ricorda che “non è compito della scuola certificare gli alunni con bisogni educativi speciali, ma individuare quelli per i quali è opportuna e necessaria l’adozione di particolari strategie didattiche”.

Ma i BES funzionano?
Lo abbiamo chiesto a Franco Lorenzoni, maestro di scuola elementare e fondatore, ad Amelia, in Umbria, della Casa-laboratorio di Cenci, un centro di ricerca e sperimentazione didattica.
I BES funzionano o no? “Dipende” dice. “Per alcuni insegnanti sono uno stimolo per lavorare meglio riguardo all’inclusone, per altri sono solo una complicazione burocratica che non modifica nella sostanza l’impostazione didattica”.
Di fatto, secondo Lorenzoni, la situazione è molto articolata ed esistono tante realtà diverse. “Da un lato, l’idea che ci sia un documento che impegni noi insegnanti a tener conto con attenzione di bambine e bambini che hanno bisogni educativi speciali è una cosa importante, perché ci invita a immaginare e a costruire giorno per giorno una didattica più attenta ai bisogni di tutti. D’altro canto, però non sempre noi insegnanti abbiamo la capacità culturale e umana per metterci in gioco e introdurre i cambiamenti radicali necessari per costruire una didattica veramente inclusiva”.
C’è poi un ulteriore rischio: “il fatto che riconoscere la presenza di ragazzi con bisogni educativi speciali comporti paradossalmente una sottrazione di responsabilità da parte di noi insegnanti “curricolari”, per cui si finisce col delegare ad altri – psicologi e terapeuti o ai soli insegnanti di sostegno – il prendersi cura delle loro difficoltà, come se fosse solo loro compito individuare le strategie capaci di sostenerli nell’apprendimento”.
In sostanza, secondo Lorenzoni, ben venga l’attenzione ai cosiddetti BES, ma solo se tutto il mondo della scuola si mette ad affrontare di petto la questione “di cosa significhi educare lavorando con gruppi fortemente disomogenei, come sono la maggioranza delle nostre classi”. Il nodo, sostiene, sta nel capire quali competenze sono effettivamente necessarie e che tipo di formazione iniziale e in servizio possa rendere gli insegnanti capaci di affrontare i difficili compiti che comporta il mestiere. “Se continuano a prevalere nelle scuole le lezioni frontali, i compiti e le interrogazioni, delegando ad altri la gestione del disagio che alcuni bambini più di altri vivono, non se ne esce”.

Gli strumenti a disposizione degli insegnanti
La stesura di un Piano didattico personalizzato prevede un approccio didattico ‘alternativo’, basato, cioè, sulle misure e gli strumenti più adatti per il singolo bambino. L’obiettivo è metterlo nelle condizioni di lavorare come tutti gli altri.
Se un bimbo, per esempio, che frequenta la seconda della scuola primaria, mostra difficoltà nella lettura tali da non capire il testo (perché fatica a riconoscere i grafemi e legge solo sillabando), è possibile ricorrere a strumenti ‘compensativi’.
In questo caso, potrebbe essere utile un computer con un software di sintesi vocale (che legge il testo e permette così all’alunno di aggirare lo scoglio della decodifica accedendo direttamente al significato). Ma anche un semplice registratore, facile da usare in classe, è un ottimo alleato.
Per chi manifesta, invece, per esempio, un disturbo nel calcolo alla primaria, la calcolatrice o la tavola pitagorica possono offrire un valido aiuto. Il punto chiave, insomma, è la flessibilità delle proposte, da parte degli insegnanti, in base alle esigenze del bambino. Questo è alla base della definizione di ogni Piano didattico personalizzato.
Accanto all’uso di strumenti in grado di favorire l’apprendimento, il personale docente può anche avvalersi di misure dispensative (ovvero l’alunno è sollevato da alcuni compiti).
Alla scuola primaria, nell’ambito delle varie materie, l’alunno può essere dispensato da una serie di attività, per esempio:
◦ lettura ad alta voce;
◦ prendere appunti;
◦ copiare dalla lavagna;
◦ dettatura di testi
◦ studio mnemonico delle tabelline;
◦ studio della lingua straniera in forma scritta.

Più attenzione al bambino e alla famiglia
Il Piano didattico personalizzato definisce quali strategie compensative e dispensative gli insegnanti ritengono adeguate per il bambino, oltre a illustrare i criteri di verifica e valutazione.
In più, prevede una sorta di ‘patto con la famiglia’. Vengono concordati per esempio alcuni aspetti che supportano il bambino (della scuola primaria) nelle diverse discipline, tipo:
· compiti a casa (riduzione, distribuzione settimanale del carico di lavoro, modalità di presentazione …)
· le modalità di aiuto: chi, come, per quanto tempo, per quali attività/discipline segue il bambino nello studio
· gli strumenti compensativi da utilizzare a casa
· le interrogazioni.
“La famiglia è informata di tutto nei dettagli e, se non è d’accordo con la proposta del piano personalizzato, non si fa nulla” dice Fogarolo. In questi termini dunque il PDP è il risultato dello sforzo congiunto scuola-famiglia.
In quest’ottica di presa di responsabilità da parte della scuola e anche della famiglia, il PDP dovrebbe migliorare la vita scolastica dell’alunno, se effettivamente, personalizzando l’intervento didattico, mette a sua disposizione gli strumenti più adatti per raggiungere le competenze obiettivo.

di Marzia Rubega Simona Regina

Fonte: Nostro Figlio.it del 12-12-2017