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Essere CODA: intervista a Michela Moschillo
Vivere Fermo del 13-03-2019
Essere CODA: intervista a Michela Moschillo
Michela Moschillo ha compiuto da poco 37 anni, è Assistente alla Comunicazione e Interprete LIS nonché socia fondatrice di CODA Italia (Associazione di promozione sociale figli udenti di genitori sordi) insieme ad altre quattro donne. Ama dipingere e adora il proprio lavoro. Ha entrambi i genitori sordi ed è molto orgogliosa di loro e di quello che è diventata grazie al sostegno che hanno saputo darle. Michela si occupa altresì dell’aggiornamento, della gestione del sito (http://www.codaitalia.org) e della pagina FB di CODA Italia.
1) Cosa significa per te essere CODA?
Potevo nascere sorda oppure udente. Potevo far parte della grande comunità sorda e invece sono nata udente, ma figlia di sordi; eppure non ho mai trovato una collocazione nel grande, molto più grande, gruppo di udenti. Io sono a metà. A metà tra i due mondi, sordo e udente, con le reciproche culture differenti e nello stesso tempo le ho assorbite entrambe. Essere CODA per me è un po’ come essere in terra straniera, non sono abbastanza “sorda” per essere tra i sordi e non sono abbastanza “udente” per essere tra gli udenti… e infatti sono CODA! Ed è proprio la consapevolezza di aver trovato finalmente una giusta collocazione che mi fa stare bene e che mi ha spinta a dar vita all’Associazione CODA Italia.
2) Come e quando sei stata esposta all’italiano?
I miei genitori con me hanno sempre segnato accompagnando ai segni la loro voce, magari non con una grammatica perfetta e magari non con una pronuncia eccellente, ma gli è sempre venuto naturale fare così sapendo che io e mio fratello potevamo sentirli. Quindi il primo approccio con la lingua vocale è venuto da loro. Sono cresciuta anche a stretto contatto con i nonni materni che erano udenti e da loro ho appreso l’italiano in maniera più naturale e fluida.
3) A scuola ti sei mai sentita diversa dagli altri?
Sì. Devo ammettere che da piccola mi imbarazzava sapere che i miei genitori non potessero relazionarsi con gli altri genitori o con le mie maestre in modo spontaneo. Non vedevo o comunque non percepivo uno sforzo da parte degli adulti nel voler superare la barriera comunicativa. Per esempio vedevo che i colloqui con le maestre se non c’era mia nonna con cui interfacciarsi duravano pochissimo rispetto a quelli degli altri genitori. Non parlavo volentieri dei miei genitori agli altri perché temevo che dicessero “Mi dispiace! Poverini!”, a volte il pietismo era rivolto invece a me, ero “poverina” ad avere due genitori sordi. Io invece li stimavo e ovviamente li amavo fin da piccina, quindi questi giudizi si scontravano con il mio sentire e mi confondevano. La mia migliore amica aveva la mamma greca, con lei ci scambiavamo gli alfabeti, lei mi insegnava quello greco e io le insegnavo la dattilologia della Lingua dei Segni Italiana, che tutti chiamavamo “alfabeto muto”. Solo da grande ho scoperto che aveva una sua dignità appartenendo a una lingua vera e propria. Credo che per i CODA con genitori segnanti sia importante capire che quello che si è usato da sempre per comunicare in famiglia non è un linguaggio intimo che si utilizza per convenienza, bensì una lingua studiata e diffusa, che ha una sua grammatica ed evoluzione. Questa consapevolezza per me è stata importante per acquisire maggiore sicurezza e anche orgoglio per la mia prima lingua.
4) Da un punto di vista linguistico e culturale ti senti più udente o sorda?
Dal punto di vista linguistico mi sento perfettamente a metà, a volte se non mi viene un termine in italiano ho in mente quello in LIS che mi facilita il ricordo di quello in italiano e viceversa. Dal punto di vista culturale probabilmente mi sento più udente.
5) Cosa apprezzi delle due culture e cosa invece ti piace meno?
Della cultura sorda apprezzo il modo rapido che i sordi hanno di relazionarsi tra loro e di fare gruppo nei contesti più disparati. Non mi piace molto la schiettezza che a volte rasenta la mancanza di empatia. Ovviamente parlando di “cultura” devo per forza generalizzare, ci sono sempre le dovute eccezioni. Della cultura udente apprezzo la capacità di saper parlare a lungo anche di cose astratte o più profonde. Il rovescio della medaglia però è il rischio che nel dilungarsi troppo si facciano questioni di lana caprina, senza mai arrivare da nessuna parte.
6) Hai incontrato delle difficoltà dovute al fatto di essere figlia di sordi? Se sì, quanto hanno influenzato il rapporto con i tuoi genitori?
Del disagio e del fatto di essermi sentita diversa ne ho già parlato. Vorrei aggiungere anche la questione “responsabilità”, che in modo diverso grava su noi udenti figli di sordi e che necessariamente influenza il rapporto. Essere piccoli e doversi relazionare con gli adulti facendo da tramite credo che sia una cosa che i genitori debbano limitare il più possibile. Oggi la tecnologia ci viene molto incontro. Per fare un esempio banale se oggi fossi un’adolescente fuori casa non dovrei più telefonare al vicino di casa per comunicare qualcosa ai miei genitori, ma potrei direttamente mandare un messaggio o fare una videochiamata senza bisogno di un tramite esterno alla famiglia. Una cosa di cui mi sono accorta ora che sono adulta è che essendo cresciuta con la sensazione di dover “aiutare”, mi riesce difficile saper chiedere aiuto a mia volta, anche ai miei stessi genitori. Ma il bello di essere adulti è anche avere i mezzi per acquisire nuove consapevolezze e migliorarsi.
7) Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)?
Credo che l’importante sia capire che entrambe sono lingue vere. Ho acquisito alcune parole dell’italiano molto tardi, continuo ad arricchire entrambi i “vocabolari” delle mie lingue e le trovo entrambe bellissime. Mi reputo fortunata a essere cresciuta in un contesto bilingue.
8) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi?
La rabbia che ho provato davanti all’ignoranza di alcuni medici che non avevano idea di come relazionarsi con i miei genitori trattandoli come degli incapaci. Voglio raccontarla perché spero che magari qualcuno che non ha nulla a che fare con la LIS se ne interessi. Ci sono diversi articoli su internet che spiegano come potersi relazionare al meglio con i sordi. Nel 2019 non accetto l’ignoranza che rasenta la mancanza di rispetto e non smetterò mai di spingere a frequentare i corsi di sensibilizzazione alla Lingua dei Segni, anche tramite l’associazione CODA Italia. Come dico spesso, se in una giornata anche una sola persona sapesse come dire “Buongiorno” ai miei genitori io sarei una persona felice. Non mi accontento di questo, miro in alto, al riconoscimento della LIS e alla sua diffusione, ecco perché sono orgogliosa di lavorare in una scuola bilingue.
9) Diventare Interprete LIS: vocazione o senso del dovere?
Ho iniziato il corso di Lingua dei Segni Italiana un po’ spinta da mia madre, ero nell’età delle mille opportunità e dei “perché no?” e mi ci sono un po’ lanciata. Poi è stato bellissimo scoprire che mi ha portata a voler proseguire il percorso formativo in maniera completa. Forse ho iniziato per far contenta mia madre, ma poi ho proseguito per passione. Ho fatto sia il corso di Assistente alla Comunicazione che quello di Interprete.
10) Qual è il tuo motto?
Più che motto è un pezzo di una canzone dei CCCP: “La libertà una forma di disciplina”, come a dire che anche per essere liberi occorre essere attenti, guadagnarsi la libertà. Nasciamo liberi e dobbiamo mantenerci tali, con le passioni e con la testa.
di Michele Peretti