19 febbraio 2024
di Sara Gandolfi
Il 20 febbraio si celebra la Giornata mondiale della Giustizia sociale. Le Nazioni Unite ne danno una definizione vaga: “Svolge un ruolo importante nel raggiungimento di percorsi di sviluppo socio-economico più inclusivi e sostenibili”. In parole povere, nessuno dovrebbe essere lasciato indietro. Ognuno dovrebbe avere le stesse opportunità di crescita, la possibilità di raggiungere standard di vita dignitosi.

 

Utopia? Di sicuro una realtà difficile da conquistare in un contesto sociale, a livello nazionale e internazionale, sempre più atomizzato ed individualista, dove le diseguaglianze – economiche, di genere, educative – restano abnormi. Oggi, quasi due terzi della nuova ricchezza prodotta a livello mondiale finisce nelle mani dell’1% della popolazione. “I cinque uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato le loro fortune dal 2020, mentre quasi 5 miliardi di persone sono diventate più povere”, avverte Nabil Ahmed di Oxfam America.

 

I leader possono e devono immaginare nuovi processi per creare un mondo più equo e più ricco, non solo di denaro. E la società tutta dovrebbe tornare a ispirarsi a modelli concreti di crescita, invece che agli influencer da Instagram. Come Katalin Karikó, Premio Nobel per la medicina 2023. Cresciuta in Ungheria negli anni Sessanta, senza acqua calda, tv o frigorifero, è stata la prima della sua famiglia ad andare all’università. Con i soldi nascosti nel peluche della figlia di due anni è emigrata negli Usa e per un ventennio ha fatto ricerca all’Università della Pennsylvania, con scarse risorse. Non è mai stata nominata professoressa. Nel 1997, però, quasi per caso, ha incontrato l’immunologo Drew Weissman e insieme hanno messo a punto una tecnologia che è già nei libri di storia: quella dei vaccini a Rna.

 

Morale? Dare a tutti la possibilità di studiare, di inseguire le proprie passioni e di non arrendersi mai. E’ la ricetta per creare ricchezza condivisa.

Giustizia sociale

è (anche) vincere il Nobel

senza dover scappare

coi soldi nascosti in un peluche

di Paolo Foschini
Care, cari,

bentrovate e bentrovati.

 

In effetti è un fotogramma che la dice lunghissima, quello evocato qui sopra dalla nostra Sara Gandolfi alla vigilia della “Giornata della giustizia sociale” indetta dall’Onu per domani, 20 febbraio: chiunque nel mondo dovrebbe poter non solo “sopravvivere” al pari di tutti gli altri, ma “vivere” la sua vita con la libertà di “prenderla in mano e farne un capolavoro”, come diceva Giovanni Paolo II. Senza essere costretti a scappare con i risparmi nascosti dentro un pupazzo.

 

Così come chiunque dovrebbe avere diritto a potersi curare al pari di tutti gli altri, anche se la sua malattia non è la stessa di altri milioni di persone (e quindi fonte di profitto per chi investe in ricerca) ma ce l’ha solo lui, o solo lei, in quanto classificata come “rara”. Paola D’Amico qui di seguito fa per noi il punto sul tema in vista di quest’altra Giornata a esso dedicata il 29 febbraio, con significativo intento di richiamo alla sua analoga “rarità” bisestiva quadriennale.

 

Chiudiamo con una storia che apparentemente parla di fortuna, un anello ritrovato, ma in realtà di perseveranza: mai metterla persa, di qualsiasi cosa si parli.

 

Le altre storie positive della settimana le trovate domani, 20 febbraio, come ogni martedì, nelle pagine di Buone Notizie all’interno del Corriere della Sera.

 

(Se volete, nel frattempo, continuate come sempre a scriverci le vostre opinioni e segnalazioni. Al solito indirizzo: buonenotizie@corriere.it)

 

 

Come sempre, buona lettura.

Bisestili ma non solo:

#Uniamoleforze

contro le malattie rare

di Paola D’Amico

Le chiamano rare perché interessano ciascuna poche, pochissime unità di persone. Ma se cambiamo per un momento punto di vista e cioè mettiamo assieme le tante e i tanti che tra non poche difficoltà scoprono nel corso della propria vita di avere una malattia rara o ultrarara potremmo avere una sorpresa. Solo nel nostro Paese, queste persone (tantissimi i bambini e le bambine) riempirebbero dieci volte lo Stadio di San Siro. Alle malattie rare, nel 2008 (anno bisestile come il 2024) è stato dedicato il 29 febbraio, quel giorno in più che si aggiunge ogni 4 anni così da far coincidere nel modo più preciso possibile il calendario gregoriano con la rivoluzione terrestre. Ma in realtà l’impegno delle tante associazioni nate per dare voce alla moltitudine di malattie misconosciute è di mobilitarsi ogni giorno dell’anno.

 

Ed ecco che Omar, l’Osservatorio malattie rare con l’Alleanza malattie rare, oltre a video-testimonianze in rete lancia anche una petizione in 10 punti/richieste: dalla necessità di una prevenzione al diritto a una diagnosi precoce, dall’accesso equo alle terapie disponibili al riconoscimento e supporto al caregiver familiare.

 

Una lezione ci arriva proprio dalle associazioni di pazienti: ed è l’importanza di fare rete. Loro lo hanno imparato. Non a caso è #Uniamoleforze lo slogan scelto per la campagna 2024 della Federazione italiana malattie rare che sta accompagnando da inizio febbraio iniziative ed eventi con l’obiettivo di sensibilizzare tutti noi sul lungo e faticoso percorso che affrontano le persone con #malattiarara e le loro famiglie. La federazione lavora da 25 anni per la tutela dei diritti anche di chi è ancora in cerca di una diagnosi. E raccoglie già 200 associazioni.

 

Per concludere, qualche numero: nel mondo si calcola siano 300 milioni le persone con malattia rara. E le patologie a cui oggi si è stati in grado di dare un nome sono quasi 8mila anche se solo per una percentuale minima (il 5%) si è trovata una cura. E poiché quasi sempre queste malattie hanno un andamento cronico, progressivo, spesso invalidante, è importante immaginare una integrazione sempre più stretta fra assistenza sanitaria e sociale. Perché non essere lasciati soli, dimenticati, è già una parte della cura.

 

Vuotare un camion dei rifiuti

per cercare (e ritrovare)

la fede nuziale di Melanie

di Redazione Buone Notizie
Poteva chiamarsi soltanto Golden, un destino d’oro fin dal cognome. Perché si chiama appunto Travis Golden il dipendente dell’azienda dei rifiuti di Greenville, South Carolina, che ha ritrovato il famoso ago in un pagliaio cercandolo in mezzo a un intero camion di spazzatura. E questa volta l’ago era l’anello nuziale di Melanie Harper, in oro bianco e diamanti, cadutole dal dito e finito nel bidone dell’immondizia appena prima che appunto passasse il camion a portarlo via.

 

O meglio: non è che lei fosse proprio sicura. Semplicemente un giorno all’improvviso si era accorta, la scorsa settimana, di non  averlo più al dito. E dopo averlo cercato ovunque le è venuto in mente tra le altre cose, ripercorrendo mentalmente tutti i percorsi di quel giorno come si fa in questi casi, il gesto di aver aperto il bidone per buttar qualcosa. Così ha mandato una email al Dipartimento dei lavori pubblici di Greenville. Senza troppa fiducia, ma vai a sapere: in questi casi si spera sempre.

 

E infatti. Quelli dell’azienda non si sono limitati al solito “va bene le faremo sapere”, ma hanno davvero vuotato in un parcheggio il camion della raccolta fatta quel giorno nel quartiere di Melanie. Poi si sono infilati i guanti e hanno cominciato a cercare.

 

Se fossimo nel Signore degli Anelli diremmo che forse è stato l’anello a trovare Golden. “Dopo ore di ricerca si legge sulla pagina Facebook della pubblica amministrazione di Greenville –  Travis Golden ha trovato l’oro. Oro bianco”. Hanno chiamato Melanie. E la restituzione è avvenuta con una piccola cerimonia.

 

Non che manchino precedenti, sempre negli Stati Uniti. Lo scorso agosto la responsabile della raccolta rifiuti di Corpus Christi, Lauren Perez, aveva ordinato di rovesciare un cassonetto di 40 metri – che da tre giorni praticamente fermentava sotto il sole del Texas – per cercare l’anello molto particolare in cui un ragazzo aveva conservato, dentro una minuscola sfera incastonata apposta, una infinitesima parte delle generi del padre.

 

Ore di ricerche. Finché due dipendenti dell’azienda, Jesse Martinez e Robert Trevinco, anche in quel caso riuscirono nell’impresa. “Era dentro una scatola, l’ultima che abbiamo aperto”, aveva poi raccontato Lauren Perez al Washington Post: “Ma questa è la conferma – disse – che non bisogna arrendersi mai”.